Attacchi di panico e psicoterapia psicodinamica: alcune considerazioni orientative.

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Il DSM –IV (il manuale diagnostico più utilizzato dalla comunità scientifica internazionale) definisce l’attacco di panico “(…) Un periodo preciso durante il quale vi è l’insorgenza improvvisa di intensa apprensione, paura o terrore, spesso associati con una sensazione di catastrofe imminente. Durante questi attacchi sono presenti sintomi come dispnea, palpitazioni, dolore o fastidio al petto, sensazioni di asfissia o di soffocamento, e paura di ‘impazzire’ o di perdere il controllo.”
Senza addentrarmi troppo sulle manifestazioni sintomatiche specifiche, sui criteri diagnostici e sulle varianti con o senza agorafobia (ovvero l’ansia e l’evitamento di luoghi o situazioni dai quali sarebbe complicato allontanarsi in caso di attacco di panico), vorrei qui focalizzare la questione sul trattamento di tale condizione psicologica, a partire dalla mia esperienza clinica come psicologo a Palermo.
L’attacco di panico fa parte del grande contenitore dei disturbi d’ansia ed è probabilmente individuabile come la manifestazione ansiogena più pervasiva e traumatica per quel che riguarda il vissuto del paziente.
Ma cos’è in realtà l’ansia? Essa è un’emozione complessa, le cui manifestazioni sono contraddistinte da sensazioni diverse, per lo più spiacevoli, quali la paura, l’apprensione, la preoccupazione, la sensazione che le cose sfuggano di mano, il bisogno di trovare una soluzione immediata.
L’ansia in sé non è né buona né cattiva, è un segnale, una sorta di campanello d’allarme che chiede la nostra attenzione su ciò che sta avvenendo dentro e/o fuori da noi.
L’ansia, in definitiva, è un elemento fisiologico della nostra vita che fa la sua comparsa quando siamo davanti a situazioni insolite o dobbiamo fronteggiare compiti o esami ai quali diamo una importanza per noi significativa. L’ansia diventa quindi problematica quando abbiamo la percezione che essa stia per prendere il sopravvento e non riusciamo a controllarla. Chi soffre di un disturbo d’ansia, infatti, non sperimenta più l’ansia come una condizione emozionale fisiologica che si manifesta in determinate circostanze, ma come una sensazione pervasiva, eccessiva e più o meno continuativa. I sintomi di chi soffre di attacchi di panico o di altri disturbi d’ansia rimandano pertanto ad un modo di stare nel mondo che la persona ha sviluppato in un’ottica di controllo degli eventi e di continua insicurezza riguardo al riuscire ad esercitare tale controllo. Ma la vita non è controllabile, è un mare da imparare a navigare che travolge le certezze, fittizie, di chi è prigioniero sulla zattera del mito del “devo controllare tutto”.

A partire da queste necessarie premesse introduttive, pongo dunque il seguente problema: se l’attacco di panico è un segnale che ci chiede di dare attenzione agli eventi, alle emozioni, alle situazioni più o meno complesse e durature della nostra vita che ci creano disagio (o, meglio, alla modalità che abbiamo appreso nel dare senso a tali eventi/emozioni/situazioni), quale può essere l’approccio terapeutico più efficace per curarlo?
Se il segnale indica una causa a monte di esso stesso, sembrerebbe logico occuparsi di tale causa. In altri termini, se vi si accende una spia rossa sul cruscotto della automobile, cercate di comprendere quale è l’anomalia di cui occuparsi, non come spegnere la spia luminosa.
Eppure, per l’attacco di panico, non tutti gli approcci terapeutici si muovono secondo questa logica.
Alcuni approcci terapeutici mirano infatti a risolvere il problema restando però dentro il paradigma del controllo. Per esempio, nella cosiddetta terapia di esposizione il paziente viene messo a confronto con ciò di cui ha paura; una tecnica piuttosto nota funziona così: ai pazienti che hanno paura di svenire viene chiesto di roteare su una sedia o di iperventilare fino a sentirsi svenire, per apprendere così che non perderanno i sensi quando avranno questo sintomo nel corso di un attacco di panico. Oppure, con la tecnica del coping (la capacità di risolvere determinati problemi attraverso processi di imitazione) si cerca di favorire nel paziente l’acquisizione di modalità di pensiero e di comportamento più funzionali. Occorre però notare come, anche quando il controllo sul panico attraverso tali tecniche avviene con successo (spesso si ottiene soltanto un controllo parziale), la qualità della vita dei pazienti non migliora in misura significativa. Infatti, dopo poco tempo, molti pazienti fanno i conti con un nuovo sintomo (o con una riproposizione dello stesso sintomo), in quanto il problema psichico a monte non è stato né affrontato, né ovviamente risolto. In definitiva, le terapie centrate sulla risoluzione del sintomo, anche quando riescono ad alleviarlo, non intervengono sul reale problema che il sintomo sta rappresentando, ovvero una reazione emozionale ad una difficoltà identitaria e relazionale più sistemica.
Tali approcci si muovono all’interno di due paradigmi. Il primo è quello pedagogico-educativo del “Ti insegno io cosa è giusto per te” che nega e riduce a scarto ermeneutico la storia e il vissuto unico e irripetibile di quella specifica persona. L’altro, di analoga derivazione epistemologica, è quello stesso paradigma medico che individua la soluzione del problema nel controllo del sintomo attraverso il farmaco (o attraverso una terapia che ambisce a funzionare come un farmaco).
Vorrei immediatamente chiarire che non intendo qui criticare l’uso dei farmaci quando una persona sta male a causa degli attacchi di panico. Io invio molti miei pazienti agli psichiatri con cui lavoro in stretto e proficuo contatto, qualora la sofferenza che il sintomo del panico comporta sia soggettivamente insostenibile, invalidante o comunque non sopportabile per quel singolo paziente. In altri termini, è il paziente che a mio avviso dovrebbe decidere se, nell’occuparsi del suo panico, vuole che il sintomo sia alleviato, contenuto, controllato dal farmaco. Alcuni ne richiedono il supporto, altri no; è, appunto, una decisione personale, seppur condivisa e vagliata insieme al terapeuta, anche in relazione agli obiettivi terapeutici. La terapia farmacologia del disturbo di panico, qualora necessaria, prevede solitamente l’uso di due classi di farmaci: le benzodiazepine e gli antidepressivi. Ma tali rimedi, sicuramente fondamentali in molti casi per contenere temporaneamente un sintomo così doloroso e controllarne le manifestazioni, si rivelano, nell’esperienza clinica, inefficaci a risolvere definitivamente i reali motivi per cui il panico condiziona così radicalmente la vita di moltissime persone e, se assunti per lungo tempo, creano seri problemi di dipendenza farmacologica.

A mio avviso per il trattamento degli attacchi di panico, una psicoterapia rivolta alla comprensione e alla riorganizzazione emozionale delle cause di cui il sintomo è soltanto un segnale, diventa il percorso privilegiato per chi soffre di tale disturbo. Per arrivare ad una soluzione del problema panico, la persona deve infatti imparare a conoscersi, a riflettere in maniera consapevole su se stessa, a rielaborare il modo nel quale vive la propria vita e le relazioni con gli altri. In tale accezione, un percorso di psicoterapia psicodinamica è direttamente orientato ad individuare e a riorganizzare la struttura delle trame identitarie, dei temi affettivi ricorrenti, delle relazioni interpersonali e, in definitiva, dei copioni di vita che stanno a monte della condizione psicologica problematica.
Oggi, negli studi degli psicoterapeuti, le richieste di aiuto per disturbi di origine ansiosa sono di certo le più frequenti e, fra di esse, quelle per un problema di panico sono numerosissime. Senza dilungarmi troppo in considerazioni sulle cause sociologiche, economiche, culturali, politiche, strettamente correlate con l’insorgenza di tali disturbi, vorrei fare alcune brevi e pragmatiche considerazioni strettamente legate alla mia esperienza clinica di psicoterapeuta ad orientamento psicodinamico.

Prima considerazione: a prescindere dal fatto che ognuno ha la sua storia, senza quindi lasciarsi tentare da facili generalizzazioni, quasi tutte le persone che iniziano un percorso di psicoterapia hanno una remissione o un miglioramento significativo del disturbo da attacco di panico nel giro di pochi mesi (a volte di settimane). Ciò mi ha sempre fatto pensare che qualsiasi terapia si intraprenda, per il solo fatto che il paziente si occupi di se stesso/a, vi è un effetto sul “sistema persona” che è già di per sé curativo. Molti approcci cercano pertanto di perfezionare (o strumentalizzare) tale effetto attribuendosi la scoperta del metodo più efficace in assoluto, ma su questo tema mi sono già espresso prima e non insisto oltre.

Seconda considerazione: nella mia esperienza professionale, quasi nessuno dei pazienti, dopo avere ottenuto un miglioramento sintomatologico, ha deciso di interrompere, almeno per questa motivazione, il percorso psicoterapico volto alla comprensione di sé, dei propri desideri, del proprio modo di vivere le emozioni. Prendersi cura di se stessi è un’esperienza che aiuta a vedere le cose da altre prospettive e accresce il desiderio di migliorare la qualità percepita riguardo alla propria esistenza.

Terza considerazione: se un paziente con attacchi di panico non decide realmente di prendersi cura di sé, nessuna terapia riuscirà a risolvere il problema.
Un aneddoto: qualche tempo addietro mi contatta al telefono dello studio una donna di circa 50 anni, mi chiede una psicoterapia domiciliare perché soffre di attacchi di panico talmente violenti che non può nemmeno uscire da casa. Mi riferisce di avere già fatto (“con discreto successo”, mi sottolinea) una terapia comportamentale domiciliare, ma quando il terapeuta le ha proposto di uscire insieme dall’abitazione, lei si è rifiutata perché temeva troppo di avere un attacco di panico! Inutile sottolineare che non ho mai iniziato una terapia domiciliare con la signora (pur fornendole tutte le informazioni e spiegazioni che il mezzo telefonico consentiva riguardo alla ambivalenza della sua richiesta) la quale, probabilmente, avrà iniziato un’altra forma di terapia con qualche altra supertecnica risolutiva (che la aiuterà a continuare a stare a casa dicendo a sé stessa e agli altri che le ha provate tutte).

Quarta considerazione: dagli attacchi di panico si guarisce. Ma ciò richiede che la persona che ne soffre ammetta con se stessa e si prenda cura del fatto che la sua vita non è regolata solo dalla logica del controllo e del dovere, dalla razionalità, dalla fortuna o dal benessere economico, ma anche (e soprattutto) dalle emozioni, dagli affetti, dai sedimenti identificatori (tutte le situazioni e le persone che sono state un modello positivo o negativo, ma che comunque hanno lasciato nella persona una traccia affettiva significativa), dalle scorciatoie emozionali prese, dai problemi identitari e relazionali sempre rimandati.

Quinta considerazione: se ci hai messo X anni a costruire un tuo mondo emozionale che ti fa stare male, non lo smonti in poche settimane. Chi avverte un disagio di natura psicologica conosce bene i costi di tale sofferenza (che sia o meno accompagnata da sintomi quali attacchi di panico, fobie, dipendenze di varia natura, note depressive, ecc.) in termini di qualità della vita, di libertà, di piacere, di difficoltà relazionale, e sa anche che è uno dei problemi della propria vita più difficili da affrontare, che richiede tempo e cura verso se stessi. Non è in genere semplice né immediato, infatti, comprendere le origini, le cause e le possibili soluzioni dei problemi psicologici, relazionali, e identitari che interferiscono con il proprio progetto di vita.
Quando il raggiungimento di un obiettivo così importante (la propria salute psicologica) ha tali caratteristiche di complessità e di difficoltà, non è affatto facile orientarsi fra le diverse “proposte” teoriche e di approccio metodologico ed è facile lasciarsi sedurre da messaggi allettanti e rassicuranti del tipo “Tutto risolto con facilità e in poche sedute.”.
Chi utilizza tali messaggi promette le tecniche più innovative ed efficaci, assicura di essere interprete della teoria psicologica e della metodologia migliore e magari, qualora siate ancora titubanti davanti ad una opportunità così risolutiva, vi regala anche il primo colloquio!
Viviamo in un’epoca nella quale l’illusorietà e l’apparenza possono essere mascherate da una comunicazione efficace che seduce il nostro desiderio o i nostri bisogni (“la cura che stupisce i medici….7 kg in sette giorni…addominali scolpiti mentre dormi, ecc, ecc.“).
Tali modelli di intervento si pongono ovviamente in antitesi con un approccio psicoterapico che richiede invece di occuparsi con attenzione, cura e interesse di se stessi e delle proprie difficoltà psicologiche e affettive.

Sesta considerazione: nella mia esperienza di psicoterapeuta, quando vi è un Disturbo da attacco di panico o altro Disturbo d’ansia, la terapia psicodinamica di gruppo è più efficace di quella individuale. Un altro esempio clinico in realtà trasversale a molte delle considerazioni qui espresse: è un paziente di circa 30 anni con una situazione familiare difficile sul piano affettivo. E’ una persona intelligente, ma tende a ricondurre tutti gli eventi (tranne l’attacco di panico del quale non riesce a darsi una ragione) a fattori logico-razionali. Inizia comunque una terapia individuale su consiglio della fidanzata; è una disputa continua tra me che cerco di aprire un varco alle “ragioni” emozionali e lui che lo richiude. Mentre la “partita” analitica (e relazionale) va avanti, gli attacchi di panico cominciano a diminuire e, forse anche per la fiducia che il paziente mi accorda in virtù della quasi totale remissione sintomatologica (ribadisco che ciò difficilmente è da ricondurre ad un merito precipuo del terapeuta, ma piuttosto al fatto che il paziente si sta occupando di se stesso), accetta la mia proposta di entrare in un gruppo di psicoterapia (dove vi sono altri tre pazienti con una storia di attacchi di panico, ma anche pazienti con problemi di natura diversa). I primi tre mesi sono complicatissimi, il paziente attacca continuamente il terapeuta (ma rimane) e diventa il paladino della logica economica che muove la nostra società e definisce il reale benessere delle persone (ma non interrompe la terapia). Non entro nel merito degli aspetti metodologico-clinici specifici della terapia di gruppo in quanto vanno oltre gli obiettivi di questo breve scritto, ma alcuni aspetti specifici del contesto di gruppo terapeutico quali: il confronto e la condivisione del problema con gli altri pazienti del gruppo, il potersi via via vedere simile o diverso da essi, la coesione relazionale del gruppo, ecc., lo introducono dentro una visione assai diversa delle cose, della sua vita, delle sue emozioni. Il paziente impara a guardare agli eventi della propria vita da altre prospettive e decide di riscriversi all’università che aveva abbandonato qualche anno prima, di imparare a suonare uno strumento musicale; prende contatto, in definitiva, con una dimensione di desiderio attraverso la quale comincia a smontare la sua stessa visione ansiosa e controllante sul proprio progetto di vita.

Per concludere: un percorso psicoterapico, per essere effettivamente di aiuto a chi soffre di attacchi di panico (ma analoga cosa si può dire per molte altre manifestazioni sintomatiche), non può soltanto prendersi cura del problema più evidente o del sintomo che crea disagio e sofferenza, ma deve aiutare il paziente ad imparare a occuparsi di sé, dei propri nodi emozionali, della propria storia personale, e delle modalità relazionali e identitarie che lo definiscono, al fine di potere realmente costruire un modo “possibile”, ma anche un benessere autentico, per stare in relazione con gli eventi affettivi e relazionali della propria vita.
Prendersi cura del proprio benessere psicologico è infatti un compito complesso, a volte faticoso, ma anche affascinante, che richiede un investimento considerevole di energie, di impegno e di tempo, sia per il paziente che per lo psicoterapeuta, ma i risultati di un lavoro psicoterapico siffatto sono reali e duraturi (anche sul piano sintomatologico) e permettono alla persona di essere autenticamente se stessa in un mondo complesso quale è quello in cui viviamo.

Fabrizio Monteverde – psicologo, psicoterapeuta

7 commenti

  1. Maria Stefania Caronna ha detto:

    complimenti Doc.

  2. Giulia ha detto:

    Salve sono una psicoterapeuta cognitivo comportamentale e non sono d’accordo con la sua pozione,
    alla base della crisi di panico c’è una convinzione disfunzionale che si puo’ smontare anche in due sedute, dopodichè è possibile lavorare sulla struttura di personalità che ha portato alla formazione e cristallizzazione del disturbo da attacchi di panico senza lasciare il paziente anni nell’incapacità di capire cosa stia succedendo, in attesa di un lungo periodo di trasformazione.

    1. adminMonteverde ha detto:

      Grazie.

  3. Pasquale Saviano ha detto:

    Complimenti per la chiarezza.
    Avendo la sua stessa formazione…sono d’accordo su tutta la linea.
    Pasquale Saviano

    1. adminMonteverde ha detto:

      Grazie.

  4. andrea ha detto:

    Complimenti

    1. adminMonteverde ha detto:

      Grazie.

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